Corriere della Sera del 6.10.2025
di Gian Guido Vecchi
Il cardinale e patriarca di Gerusalemme: «Il cessate il fuoco sarebbe il primo passo»
Come vede, eminenza, il piano Trump? C’è la possibilità che si arrivi a un’intesa?
«Un clima di speranza si percepisce. Anche i media locali qui si mostrano speranzosi, ma con misura. Il fatto è che ci sono tante difficoltà, tanti punti interrogativi. C’è ancora tanto da fare. Tanto. Però questa è una possibilità che non si era mai vista prima».
Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, ne ha viste tante. Sabato ha scritto un messaggio ai fedeli: «Le notizie parlano finalmente di una possibile nuova pagina positiva, della liberazione degli ostaggi israeliani, di alcuni prigionieri palestinesi e della cessazione dei bombardamenti e dell’offensiva militare. È un primo passo importante e lungamente atteso». Ora sospira: «Speriamo che le pressioni internazionali abbiano effetto sulle parti, il governo israeliano e Hamas…».
I processi di pace o almeno di dialogo sono spesso scanditi da sabotaggi. Attentati e violenze, dall’assassinio di Rabin al pogrom del 7 ottobre, che in genere ottengono l’effetto voluto. Vede questi rischi?
«Assolutamente sì, è un percorso pieno di insidie, come sempre. Però da una parte c’è anche tanta stanchezza, in tutti, una stanchezza che non può essere del tutto ignorata: basta. E dall’altra vediamo una forte pressione internazionale che apre un minimo di possibilità. Si è aperto uno spiraglio che non ha precedenti. Bisogna entrarci e cercare in ogni modo di allargarlo».
Una prospettiva di pace?
«Pace è una parola impegnativa, richiede tempo. La fine di questa guerra orribile non sarebbe la fine del conflitto, il cessate il fuoco non è la pace. Però è un primo passo, la premessa necessaria per cominciare un percorso nuovo, diverso».
Ha detto che in 35 anni non ha mai visto un momento così duro in Terra Santa. Come ci si è arrivati?
«Ci ho pensato a lungo. Certo, c’è stato il 7 ottobre. Ma la deriva era iniziata molto prima, una narrativa di disprezzo, di rifiuto, di odio, di supremazia da tutte e due le parti. Questa mentalità di esclusione, la negazione di qualsiasi forma di compromesso, il rifiuto di avere a che fare con l’altro, tutto questo non è una novità degli ultimi due anni. Ricordava l’assassinio di Rabin e anche quello non è nato dal nulla, questo clima c’era già allora, un atteggiamento che è cresciuto nel tempo. Ciò che sta accadendo ha bisogno di un contesto, si tratta di capire che è stato preparato e nutrito in un clima culturale ben definito».
A parte questo, qual è il pericolo più grande?
«L’incapacità di trovare un compromesso. È chiaro che tutte le parti debbano rinunciare a qualcosa in vista di un bene maggiore, e vedo una certa difficoltà in questo. Poi ci sono anche questioni di reputazione, di coerenza con la linea presa. Certo sono decisioni che richiedono coraggio e devono essere sostenute dai mediatori e dalla comunità internazionale».
In Europa, e in particolare in Italia, si sono moltiplicate le manifestazioni per Gaza. Folle di famiglie, tantissimi studenti ma anche gesti estremi come l’imbrattamento della statua di Wojtyla. Lei che idea si è fatto?
«Le cose estreme le lascerei da parte. Gli idioti ci sono sempre ma non rappresentano la bellezza della stragrande maggioranza della popolazione. Vedo una mobilitazione trasversale, e credo sia un aspetto importante da tenere in considerazione. Le immagini che arrivano da Gaza hanno risvegliato e fatto emergere qualcosa che abita la nostra coscienza, la dignità delle persone, dei diritti, della vita. Lo vedo come qualcosa di molto positivo, da valorizzare e da orientare bene. Crea anche un senso di comunità, di unità sulle cose importanti della vita che hanno accomunato tante persone, al di là degli estremisti».
Il Patriarcato era disponibile a consegnare, attraverso Cipro, gli aiuti della Flotilla. Che è successo?
«Noi abbiamo cercato di aiutare, per trovare una soluzione che non fosse lo scontro. Non sapevamo cosa potesse accadere, la situazione era pericolosa, il nostro intento era dare una mano per ottenere il risultato di portare aiuti umanitari e insieme evitare pericoli alle persone. È andata diversamente. Noi restiamo sempre a disposizione per aiutare, ma non facciamo parte di nessuno schieramento».
Gaza è una distesa di macerie con centinaia di migliaia di sfollati. Come si fa?
«È tutto da ricostruire. A Gaza City ancora è rimasto in piedi qualcosa ma altrove non c’è nulla. Non ci sono ospedali né scuole, le infrastrutture sono distrutte. Bisogna lavorare sui muri e sulle persone, perché lo stesso tessuto umano va ricostruito. Pensi agli orfani, agli anziani, alle famiglie. C’è da ricominciare da capo».
La Chiesa parla spesso di «purificazione della memoria». Cosa significa?
«Cominciare a riconoscere l’esistenza dell’altro, aprire gli occhi, fare i conti con la realtà. Ci sarà bisogno di tempo e di leadership politiche e religiose capaci di uno sguardo diverso sul presente».
Diverso come?
«Si tratta di vedere l’altro, vedere che c’è. Cambiare la prospettiva per cui ciascuno si riconosce come la sola e unica vittima. Il linguaggio di odio disumanizza l’altro. Ciascuno è talmente dentro al proprio dolore che non trova spazio per quello dell’altro».