Ed invece Elvis potrebbe star tutto lì. In quella ricerca insistente. Un film di qualche anno fa ha tentato di dare una prima risposta.
Ne ha discusso, domenica scorsa al Piccolo Caffè dei Fiori di Porto San Giorgio, una ventina di persone accettando l’invito della Fondazione San Giacomo della Marca, primo degli Aperitivi in Musica.
A guidare l’ascolto è stato Gigi Bagalini. Se la musica fosse uno stupefacente, lui sarebbe un drogato irrimediabile.
Difficile parlare di Elvis fuori dagli schemi consueti. Non ha scritto testi, non ha musicato canzoni. Ha fatto solo cover. Eppure ha rivoluzionato la musica e la cultura americana. Com’è stato possibile? Interpretando, cogliendo gli aspetti migliori. Il palcoscenico è stato il suo teatro, le case di registrazioni la sua palestra.
Ascoltate Mistery Train, dice Gigi, la canzone originale parla di un treno (il blues ha sempre parlato di treni, di binari, di qualcosa che fugge irrimediabilmente) che porta via la speranza (c’è una donna di mezzo). In Elvis, no, nel pezzo reinterpretato c’è il vigore di un ritorno, di un’attesa densa di significati. Non c’è il nulla, c’è una promessa e c’è una speranza.
A Memphis Presley, nato poverissimo, girava i quartieri neri per ascoltare il blues e il suo dolore. Questi testi, quelle note erano pregne di una mentalità calvinista, quasi fatalistica, un destino che intrappola, premio e castigo. Poca misericordia, forse.
E’ questo che Elvis innova o porta a maturazione.
Divenne ricchissimo. Un giorno gli domandarono perché faceva regali costosissimi. Rispose che l’amicizia è un grande dono e si commuoveva a vedere lo stupore degli amici cui aveva dato qualcosa. Che poi erano ville, auto…
Mentre cantava, Elvis cambiava i personaggi della canzone. Se erano rabbiosi ne prendeva le distanze, se erano positivi li innalzava.
Nonostante la depressione lo avesse avvinghiato, amava la vita, e guardava con speranza al futuro.
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